Interviene Emanuela D’Aversa, responsabile relazioni industriali dell’organismo datoriale, per evidenziare i rischi che il salario minimo potrebbe determinare nell’accelerare la fuga dai CCNL: “Bisogna formare e sostenere giovani e donne e destagionalizzare una serie di settori, primo tra tutti il turismo”
Prosegue il dibattito parlamentare sul futuro del salario minimo. Un tema che FederTerziario, nel solco della sua recente azione di contributo teorico e confronto nei tavoli istituzionali, chiede di affrontare in maniera strutturata senza pregiudizi ideologici e superando l’antica contrapposizione tra le parti sociali. Una riflessione che si costruisce a partire da un’esigenza di contesto che si declina in un tessuto produttivo italiano costituito per almeno il 99% da micro e piccole imprese che vedono datore di lavoro e dipendente lavorare nel medesimo contesto, condividendone problematiche e successi.
Questa parcellizzazione del sistema produttivo, assieme a una tendenza diffusa che sembra voler ridimensionare il ruolo dei corpi intermedi, essenziali per la democrazia, contribuisce direttamente alla disintermediazione e alla crisi della rappresentanza soprattutto se le problematiche del lavoro e del giusto compenso vengono affrontate in un’ottica di contrapposizione del tutto anacronistica.
“Esiste ed è un evidente problema in Italia la presenza delle sacche di lavoro povero – spiega Emanuela D’Aversa, responsabile relazioni industriali FederTerziario – ma bisogna anche chiedersi se il salario minimo di fatto, tentando di risolvere questa criticità, non possa determinare delle problematiche che sarebbero di fatto più gravi rispetto ai vantaggi che intendiamo introdurre. In primo piano, c’è soprattutto il rischio di una fuga dai contratti collettivi”.
A livello europeo la direttiva sull’applicazione del salario minimo, approvata il 14 settembre 2022, di fatto dovrebbe essere recepita dagli Stati membri entro due anni. Ma a livello nazionale, grazie alla capillare applicazione dei contratti collettivi che non rende obbligatoria l’introduzione del salario minimo, sono proprio questi ultimi a garantire e tutelare il lavoratore anche in termini di una giusta retribuzione attraverso l’interlocuzione e il confronto tra le parti sociali, impedendo quanto sta accadendo in ambito comunitario, proprio negli Stati che hanno introdotto la misura, nei quali si sta verificando una crescente tendenza a lasciare i contratti nazionali per intraprendere la via più semplice del salario legale.
“I contratti collettivi non garantiscono solo la retribuzione – spiega D’Aversa – ma adeguano costantemente gli strumenti normativi alle esigenze del mondo del lavoro, ad esempio attraverso la formazione continua che è un valore per i lavoratori, per l’impresa ma soprattutto un valore sociale. Forniscono servizi attraverso la bilateralità e prestazioni di sanità integrativa, stimolano forme di flessibilità e compartecipazione che migliorano il clima aziendale, la produttività e la conciliazione dei tempi di vita e lavoro. La fuga dai CCNL, quindi, sarebbe un grave danno per l’intero sistema produttivo italiano ed in particolare per i lavoratori che col salario minimo intendiamo tutelare”.
Il problema delle sacche di lavoro povero – sarebbero circa 3 milioni i lavoratori a rischio povertà, secondo dati Censis – va ricercata non tanto nell’assenza del salario minimo e nemmeno nella proliferazione dei contratti. Secondo il Cnel, nel focus dedicato ai numeri dell’archivio nazionale dei CCNL, infatti, sarebbero 946 i contratti registrati ma di questi quelli “pirata” o presunti tali sono applicati solo a 54.220 lavoratori, con l’ovvia conseguenza che alla maggior parte dei lavoratori poveri vengono applicati contratti sottoscritti da soggetti “rappresentativi”.
“Il lavoro povero non dipende pertanto dal proliferare dei CCNL – prosegue la responsabile delle relazioni industriali di FederTerziario -, anche se certamente ci sono contratti che non garantiscono retribuzioni adeguate, quanto da fenomeni quali il part- time involontario soprattutto delle e delle donne con figli, i lavori stagionali che, ad esempio nel turismo, occupano solo 143 giornate annue e che si legano a quel fenomeno del lavoro parasubordinato o grigio che prolifera in tutta una serie di settori produttivi”.
Per superare queste evidenti difficoltà bisogna avere una visione comune e condivisa che superi anacronistiche posizioni ideologiche e che, partendo da una concreta analisi delle peculiarità del mondo produttivo punti, tra le altre cose, a destinare adeguate risorse umane ed economiche agli organi ispettivi per contrastare fenomeni elusivi, a destagionalizzare i flussi turistici e ad investire in infrastrutture sociali che permettano alle donne di entrare nel mondo del lavoro e di rimanervi, puntando su percorsi formativi che forniscano ai giovani e a coloro che per qualsiasi ragione sono fuori dal mercato del lavoro, le competenze richieste dalle imprese e, allo stesso tempo, rendano i futuri lavoratori sempre più consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri.